di Francesca Marino
Chi ha bisogno per la vita quotidiana di interventi e dispositivi medici (come chi è portatore di una disabilità) è comunque, prima di tutto, una persona ed un membro unico e insostituibile della comunità. “Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo” (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 1948.) . Quarant’anni dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rigths of the Child – CRC, 1989.) delinea i principi fondamentali su cui si fondano specificamente i diritti dei bambini:
- la non discriminazione;
- il superiore interesse del minore;
- il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo;
- il diritto del minore di essere ascoltato.
Nel 2007 la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (Convention on the Rights of Persons with Disabilities, CRPD. La convenzione è stata ratificata ad oggi da 181 paesi; nel 2009, tra gli altri,
dall’Italia) segna una tappa fondamentale nel processo di approfondimento dei presupposti irrinunciabili per la costruzione di una civiltà che abbracci realmente l’umanità e ogni persona. Alla base si riconosce che il concetto stesso di disabilità si evolve e cambia anche in relazione alle barriere comportamentali e ambientali o viceversa al loro superamento. La questione centrale non è l’approccio medico alla disabilità ma che ognuno sia messo in condizione di godere dei diritti umani e di esprimere al meglio le sue potenzialità, nell’interesse comune. Pertanto «la discriminazione contro qualsiasi persona sulla base della disabilità costituisce una violazione della dignità e del valore connaturati alla persona umana» ed è essenziale “promuovere e proteggere i diritti umani di tutte le persone con disabilità, incluse quelle che richiedono un maggiore sostegno”.
L’attuale emergenza dovuta alla pandemia da virus COVID-19 ha portato drammaticamente alla ribalta il problema dell’accesso alle cure e agli strumenti necessari per sostenere le funzioni vitali in condizioni di emergenza e di rischio elevato per la salute. Il diffuso e improvviso bisogno dei respiratori meccanici e delle strutture di terapia intensiva, superiore alle immediate possibilità di risposta del sistema sanitario in molte regioni del mondo, ha fatto emergere l’importanza cruciale di avere dei principi di riferimento a cui appoggiarsi per individuare le strategie più corrette di approccio.
Purtroppo in queste circostanze sono stati messi in atto, e in diversi casi addirittura giustificati, processi di discriminazione nei confronti delle persone con fragilità o disabilità o che comunque avevano una
situazione medicalmente complessa già in partenza. Da una parte si osserva una certa prassi sanitaria, che attribuisce di fatto un valore relativo e un minor peso alle possibilità di cura rivolte a persone ‘fragili’. Dall’altra si sono avute pronunce ufficiali di vari stati che teorizzavano l’opportunità e la legittimità di scegliere tra le persone da curare, privilegiando quelle più sane e meno compromesse, con una aspettativa più alta di guarigione e con una maggiore ‘qualità’ di vita.
Per citare i casi più eclatanti, nel marzo scorso dieci Stati appartenenti agli USA (Washington, New York, Alabama, Tennessee, Utah, Minnesota, Colorado, Oregon, Maryland e Pennsylvania) hanno indirizzato alpersonale sanitario disposizioni che invitano a non impegnare risorse salvavita per pazienti COVID che fossero già vulnerabili per altre situazioni complesse (quali atrofia muscolare spinale, cirrosi epatica,
malattie polmonari, scompensi cardiaci, disabilità psichica, disturbi neurologici, dialisi o semplicemente anzianità), in modo da lasciarle disponibili per chi gode di una salute più stabile e ha maggiore ‘valore’ per la società. Ai timori che queste misure hanno riversato su una consistente parte della popolazione, si aggiunge la pressione psicologica esercitata ponendo, in caso di bisogno, agli interessati la domanda se preferiscano rinunciare alle cure in favore di chi ha più probabilità di sopravvivenza (Da notare che gli USA, pur avendo firmato la CRPD nel 2009, non hanno mai proceduto alla ratifica che avrebbe di fatto conferito alla Convenzione valore di legge. A New York una direttiva del 2007 ancora vigente prevede che il respiratore individuale di un paziente che ne fa uso quotidiano possa, in caso di epidemia, essergli sottratto e dato ad altri) . Più recentemente, per l’intervento di alcune associazioni e forze di opposizione, è stato reso pubblico nella sua interezza un protocollo, prima parzialmente segreto, diffuso in aprile tra i medici nella provincia canadese del Quebec, in base al quale sono escluse dall’accesso alle terapie intensive le persone con sindrome di Down, Parkinson, Sla o grave disturbo autistico (Questo nonostante che il Canada abbia firmato la CRPD nel 2007 e la abbia ratificata nel 2010.).
Pur senza addentrarci nell’intricato dibattito su qualità, dignità, valore e (in-)disponibilità della vita umana, è evidente che queste linee guida contraddicono palesemente i principi e le finalità della Convenzione sui diritti dei disabili: “promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità” (articolo 1). La CRPD impegna gli Stati a “garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento” (articolo 5) e ad adottare tutte le misure necessarie perché esse possano effettivamente godere del “diritto alla vita” (“connaturato alla persona umana”) “su base di uguaglianza con gli altri” (articolo 10). In particolare nell’articolo 25 si legge: “Gli Stati Parti riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del migliore stato di salute possibile, senza discriminazioni fondate sulla disabilità” e devono “prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità”.
Contro la selezione preventiva tra chi ha diritto alla cura e chi no si sono pronunciate molte associazioni nei paesi interessati e in tutto il mondo (Il 31 marzo UNIAMO (Federazione delle Associazioni di Persone con Malattie Rare d’Italia) ha indirizzato al governo italiano una lettera aperta, sottoscritta da numerosissime associazioni, tra cui la nostra, chiedendo “che vengano messe in atto azioni preventive affinché non ci si ritrovi di fronte alla necessità di scegliere quali vite umane meritino di essere salvate e quali sacrificate”). Il 28 marzo, in seguito alle crescenti contestazioni, è intervenuto l’Ufficio per i diritti civili del Dipartimento della salute e dei servizi umani USA, per ribadire che l’amministrazione federale vieta ogni pratica discriminatoria che neghi le cure mediche sulla base di stereotipi, valutazioni sulla qualità di vita e giudizi di ‘valore’ legati alla disabilità o all’età. Il 10 aprile il governo canadese ha istituito un Gruppo Consultivo su COVID-19 e Disabilità, riconoscendo la necessità che le scelte e le azioni governative si facessero carico delle esigenze speciali delle persone con disabilità e della protezione più vigile dei loro diritti nelle attuali straordinarie circostanze.
L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani il 30 aprile ha pubblicato un’analisi dell’impatto del Covid 19 sui diritti delle persone con disabilità. Il rapporto ha evidenziato come i disabili siano
una categoria più a rischio di contrarre la malattia e di contrarla in forma grave, siano messi in grande difficoltà dalle chiusure imposte dalle misure di contenimento del virus (che hanno quasi azzerato
l’accesso alle terapie riabilitative e l’assistenza domiciliare) e si trovino a subire le conseguenze dei protocolli medici fondati su un pregiudizio riguardo a qualità di vita, valore sociale e possibilità di so-
pravvivenza e di successo terapeutico. Lo stesso segretario generale dell’ONU (Antonio Guterres) si è pronunciato in merito, in occasione del Lancio delle linee guida su persone con disabilità e covid-19 (New York, 5 maggio), sottolineando le criticità e la non inclusione riscontrate in molte situazioni. Ma ha anche suggerito l’opportunità di partire da questa presa di coscienza per “disegnare e sviluppare società più inclusive e accessibili”, ricordando che «mettendo al sicuro i diritti delle persone con disabilità, investiamo nel nostro futuro comune».
Questo è anche il nostro pensiero. Una stima approssimativa indica che almeno il 10% della popolazione mondiale ha qualche aspetto di disabilità e circa il 25% ha a che fare con la disabilità in famiglia o nel contesto di vita. Riconoscere e sostenere i bisogni, i diritti e le possibilità dei bambini medicalmente complessi e delle loro famiglie, e il contributo prezioso che danno alla società con la loro testimonianza (anche quando è nascosta), è riconoscere quello che di più autentico accomuna tutta l’umanità.